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L'opera di Riccardo De Marchi (Tarvisio, 1964) invita l'osservatore a un esercizio ermeneutico. Le sue sequenze lineari dei buchi, scalati in righe sovrapposte su diverse superfici - in alluminio, in plexiglas o polietilene - esibiscono impaginati e formati di scritture lontane, indecifrabili, che tanto più perentoriamente si affermano quanto più si sottraggono alla lettura e alla comprensione. Allineati e alternati in diametri diversi, assumono l'aspetto di impaginati artistici, dittici arcaici, textures alfabetiche. Ma l'ossessione scritturale di De Marchi va oltre, invadendo oggetti comuni, copertine di dischi, cucchiai, conchiglie e cartoline, come fosse una marcatura indelebile e misteriosa delle cose. Il silenzio dei segni che De Marchi mette in scena non è altro che l'apertura di uno spazio di lettura negato e, proprio per ciò, di una scrittura in permanente stato di attesa.